Harry Styles, o come sopravvivere alle boyband

Da che esiste il fenomeno delle boyband (o delle girlband!), come appassionati di musica abbiamo sempre assistito con perplessità, alle volte anche con preoccupazione, al tentativo di far decollare le carriere soliste di alcuni dei loro membri più popolari: prima o poi questi giovanissimi artisti, vere macchine da guerra dell’intrattenimento, finiscono col bruciarsi o perdere quel “quid” che li rendeva interessanti finché parte di un gruppo.

Nel corso dei decenni è successo a Robbie Williams dei Take That, a Geri Halliwell delle Spice Girls, in parte a Justin Timberlake degli ‘NSYNC (la sua parabola da qualche anno sembra essersi infranta a causa di uscite pubbliche particolarmente infelici).

Sembra invece inscalfibile l’immagine di Harry Styles, che dal momento dell’implosione degli One Direction sembra aver trovato la sua ragion d’essere artistica in una carriera all’insegna dell’eterogeneità: recita, canta, compone, flirtando con generi anche molto distanti dal pop da classifica come country e rock.

Un brutto anatroccolo diventato cigno (sui media)

Un abile comunicatore sui social media, ha dimostrato di essere un animale da palcoscenico con show sorprendentemente a misura di pubblico adulto.

Particolare non secondario, Styles sa gestire la pressione della continua attenzione mediatica e sa farlo con intelligenza, decidendo come comparire – anche lanciando con furbizia messaggi sociali di grande attualità. In questa categoria ricadono le sue uscite in abiti femminili, che hanno fatto di più per l’accettazione delle persone gender fluid di tante campagne politiche.

In qualche modo Harry Styles sta riscrivendo le regole sull’ambiguità in musica, e il risultato non dispiace affatto: al di là del suo valore musicale, porta una ventata d’aria fresca assai gradita.